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Il coronavirus avanza anche con la distruzione dell’ecosistema

Le malattie che disegnano la storia e tormentano le giornate dell’uomo sono dovute proprio a quegli organismi che mettiamo più in basso nella gerarchia delle specie: batteri, virus, protozoi e nematodi. Questo esercito di piccoli e agguerriti parassiti è quotidianamente alimentato da tutto quello che di pericoloso facciamo nella biosfera.

Facilitati dalla distruzione degli ecosistemi e dal riscaldamento globale, dall’inquinamento e dall’aumento della popolazione, i nostri veri nemici stanno vivendo una rivoluzione epocale: hanno nuovi spazi da conquistare e nuove prospettive di sviluppo. Viaggiano in aereo, si diffondono negli ambienti degradati o nei centri affollati e, soprattutto, approfittano dell’assenza o della scomparsa di piante e animali che in qualche modo li tenevano a bada.

Come scrive il naturalista David Quammen (“Spillover” Adelphi 2017) “là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie…i virus si adattano bene e velocemente alle nuove condizioni create dall’uomo”. Le cosiddette malattie emergenti – come Ebola, AIDS, SARS, influenza aviaria, influenza suina e oggi il coronavirus – non sono catastrofi naturali e accadimenti del tutto casuali, sono spesso la conseguenza del nostro intervento maldestro di distruzione degli ecosistemi.

Gli ecosistemi naturali, come le foreste, le praterie, la rete di acque dolci e salmastre, vengono distrutti per far posto alla sempre più invadente presenza umana umana, che si circonda di cemento, asfalto, di terra nuda coperta di rifiuti. Scompaiono gli ecosistemi naturali e con loro i piccoli e grandi animali che si cibano dei nostri parassiti (pensiamo solo ai grandi divoratori di zanzare come pesci e uccelli) e arrivano a frotte i microrganismi responsabili delle nostre infezioni.

Le periferie, degradate e senza verde di tante metropoli tropicali, si trasformano un crogiuolo perfetto per malattie pericolose come la febbre dengue, il tifo, il colera, la chikungunya (ce la siamo già dimenticata?).

I mercati di quelle stesse metropoli, che siano in Africa o in Asia, spacciano quello che rimane della fauna predata: animali selvatici vivi, parti di scimmie, carne di serpente, scaglie di pangolini, e tanti altri ancora, creando nuove succose opportunità per vecchie e nuove zoonosi.

E in tutta questa sarabanda il riscaldamento globale è l’ultimo perfetto condimento: quale virus o batterio non predilige il caldo umidiccio delle nuove condizioni climatiche?

Questo è il drammatico scenario che con la distruzione della biodiversità ci stiamo allegramente apparecchiando.

A questo punto abbiamo davanti a noi due strade. Possiamo immaginare un futuro con ospedali sempre più grandi, vaccini sempre più potenti, disinfettanti sempre più tossici, oppure possiamo rimboccarci le maniche e iniziare a ricostruire qualcosa di quello che abbiamo distrutto rimettendo insieme i pezzi degli unici sistemi in grado di proteggerci da epidemie e catastrofi: gli ecosistemi. A noi la scelta.